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NO AI LICENZIAMENTI: SERVE UNA NUOVA POLITICA ECONOMICA
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- Di Comintern
- Lunedì, 28 Giugno 2021 08:39
Bisogna evitare il massacro sociale e disinnescare il probabile, conseguente, conflitto sociale. A questo porterebbe il provvedimento governativo di fine del blocco dei licenziamenti che vedrebbe coinvolta una platea di circa 700.000 lavoratrici e lavoratori. Non servono palliativi o “mezze politiche” che lasciano il (cattivo) tempo che trovano, bensì una nuova politica economica che punti, usufruendone in maniera strutturale, sulla moderata crescita dell’inflazione post pandemia. Non è, infatti, possibile continuare a puntare ad un’inflazione negativa laddove il Paese ha, invece, necessità di rilanciare lo sviluppo produttivo ed economico. Bisogna cambiare politica economica, partendo dal rialzo del tasso di inflazione, per quello che può portare all'economia del Paese. Infatti, un tasso d’inflazione vicino ma non superiore al 2% viene addirittura auspicato dalla BCE e dalle banche centrali ed è ritenuto positivo perché indica buona salute per l'economia. Infatti una moderata inflazione è il sintomo che i consumi del Paese sono in rafforzamento e stanno alimentando la crescita, che i salari sono in aumento grazie a un mercato del lavoro solido, che la produzione risente di aumenti dei costi che riflettono un’economia in buona salute. Un’inflazione eccessiva, superiore al 2%, ma soprattutto un’inflazione negativa, ovvero deflazione, sono al contrario molto dannose per l’economia perché generano incertezza, sfiducia degli operatori, situazioni che possono determinare non ottimali comportamenti per il contesto economico. Se un’inflazione eccessiva può determinare, per esempio, un clima di sfiducia, generare un rialzo dei tassi di interesse e frenare gli investimenti o i consumi, un contesto di deflazione è ancora peggio perché porta all’immobilismo e induce imprenditori e consumatori a pensare che rinviare a un domani acquisti ed investimenti sia meglio che farlo oggi, dal momento che i prezzi e i costi scenderanno. E questo immobilismo genera un calo della crescita, conducendo quasi inevitabilmente alla recessione. Un’inflazione vicino al 2% è, inoltre, favorevole per i paesi con elevati stock di debito - e quindi per l’Italia - mentre la deflazione è molto negativa per lo stesso motivo in quanto lo stock di debito pubblico accumulato, e da finanziare con nuove emissioni di titoli obbligazionari, è solitamente a prezzi costanti e resta quindi invariato nel tempo mentre il calo del Pil avviene a prezzi correnti, in quanto composto da valori che vengono aggiornati, in questo caso negativamente, con l’inflazione. Ed oggi, il primo macigno che gli italiani trovano sulla loro strada è quello, pesante, del rientro del debito pubblico e quindi la riduzione del rapporto tra il debito pubblico e il Pil. Il governo, in questo frangente, potrà muoversi in due modi: (1) ripagare il debito, agendo sul numeratore per diminuirlo oppure (2) incrementare il Pil, aumentando il denominatore per ridurre il rapporto. Nel primo caso, limitandosi ad un taglio delle tasse per ridurre la pressione fiscale ma senza creare squilibri nella finanza pubblica, bisognerebbe operare veri e propri tagli alla spesa pubblica che renderebbero vani i piani economici del governo legati all’utilizzo dei soldi ricevuti dal «Recovery Fund» che vincola l’utilizzo delle risorse finalizzato agli investimenti pubblici laddove, segnatamente per il nostro Paese, questa strada deve essere percorsa con decisione anche per attivare investimenti privati con l’obiettivo strategico di rilanciare un deciso sviluppo produttivo. Nel secondo caso, l'unica via che oggi appare equa da percorrere, è quella di gestire lo sforamento dei parametri sul debito pubblico mediante un cambio radicale di politica economica. Al nostro Paese servono massicci investimenti pubblici che stimolino quelli privati, forte spinta all'esportazione, aumenti salariali che facciano risalire l'inflazione entro parametri gestibili, incremento della massima occupazione possibile per favorire la massiccia ripresa dei consumi delle famiglie italiane. Una nuova politica economica che rilanci la crescita del Pil, composto da valori che vengono aggiornati con l’inflazione, dovrà essere quindi (moderatamente) inflazionata, sospinta da un aumento del salario medio per favorire il riequilibrio degli indici di debito (Debito/Pil) che tenderanno a scendere e dovrà riuscire a sgretolare il grande timore per il futuro del Paese che attanaglia le famiglie italiane costringendole, di fatto, ad un eccesso di liquidità immobilizzata su conti correnti. L'Italia che vuole ripartire ha di fronte due sfide immani: incrementare il Pil, anche in rapporto al debito pubblico, e portare a regime l'economia rilanciando fortemente lo sviluppo produttivo e conseguentemente la massima occupazione possibile. Ecco, quindi, che diventa ineludibile impostare una Nuova Politica Economica che, puntando anche su una corretta ed equilibrata gestione dei miliardi destinati al PNRR, agisca in maniera strutturata sulla leva inflattiva e salariale, da un lato, e su quella dello sviluppo produttivo e dei consumi, dall'altro. Lo sviluppo produttivo, infatti, dipende dalla domanda che a sua volta dipende dal reddito, che è uguale alla produzione. Un effetto moltiplicatore: l'incremento della domanda fa aumentare la produzione; l'aumento della produzione porta a un aumento del reddito dello stesso ammontare, dato che domanda e produzione sono identicamente uguali; la crescita del reddito aumenta ulteriormente il consumo che a sua volta genera un aumento della domanda e così via. Aumenti salariali e massima occupazione possibile devono necessariamente completare e dare impulso al necessario cambio di passo in politica economica. Se persisterà il clima di forte incertezza c'è il rischio di compromettere l’efficacia degli eventuali stimoli alla domanda e quindi comprimere ulteriormente il Pil, le cui variabili più importanti sono, appunto, i consumi in quanto parte più importante degli impieghi e gli investimenti perché rappresentano il potenziale produttivo del Paese. Il conto, salatissimo, lo pagheranno donne ed uomini espulsi dal lavoro e giovani, quelli che ancora non hanno desistito dal cercare occupazione. A chi gioverà lo scoppio di una bomba sociale?