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26 DICEMBRE 1991, FINE DELL'URSS: FALLIMENTO O SCONFITTA?

Il 26 dicembre del 1991 veniva ammainata la bandiera rossa sulle mura del Cremlino a Mosca: era la fine dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Si completava drammaticamente – per milioni di comunisti – un’ agonia iniziata con la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989. Iniziava una nuova epoca nella storia dell’umanità: all’equilibrio del terrore (contraddistinto dalla contrapposizione tra EST ed OVEST) si sostituiva il terrore senza equilibrio (unipolarismo militare americano).

Ad un’offensiva borghese e reazionaria, attivata immediatamente dopo questi tragici eventi ed ancora in corso, tesa solo ed esclusivamente ad accreditare tutto il male possibile del comunismo, dei suoi teorici e delle sue realizzazioni agli occhi di un’opinione pubblica comunque complessivamente emozionata dall’evento (per un motivo o per un altro), non ha fatto ancora diffusamente seguito, a 20 anni dalla caduta dell’URSS,  un’analisi concreta delle cause che hanno portato alla degenerazione del comunismo elaborata da partiti o movimenti che pure si rifanno alla tradizione comunista. Realizzare, o tentare di farlo, un bilancio storico dell’esperienza comunista mondiale non è impresa da poco, ma è probabilmente un dovere a cui non possono sottrarsi i comunisti e tutti coloro che si ritengono portatori di progetti e lotte per un radicale cambiamento sociale, rappresentanti e voci di sfruttati ed oppressi di cui si proclama la volontà di emancipazione. E’ ora di ritrovare quella passione politica, quella capacità di indignarsi contro le infamie dell’avversario di classe,  quel sentirsi parte in causa nelle lotte del proletariato, che guidava l’opera di Karl Marx nella lucida disamina della “anatomia della società borghese” e dei cicli di accumulazione del capitale.

Il triennio 1989-91 segna evidentemente un punto di non ritorno. E’ da questo preciso momento che compare la parola “fallimento” intesa in modo generico ed ambiguo quale definizione generale di tutta la storia delle rivoluzioni comuniste del ventesimo secolo. Prima di quegli eventi nessuno - anticomunista o antistalinista – aveva diffusamente parlato di fallimento, a proposito delle esperienze realizzate di socialismo;  voci critiche di sinistra parlavano di “collettivismo burocratico”, “capitalismo monopolistico di stato” o “socialimperialismo” ma nulla che riconducesse ad un giudizio definitivo e netto. Se pensiamo ad una rivoluzione “tradita” o “degenerata” oppure sconfitta da eserciti stranieri rovesciata da una controrivoluzione interna, essa mantiene tutta la dignità delle sue ragioni fondatrici, ed anche le potenzialità, può ripresentarsi e riaffermarsi con nuovo vigore. Nel gioco crudele e alterno delle vicende lunghe della storia, la sconfitta è solo un momento di una lunga partita più vasta e complessa ingaggiata con un potentissimo avversario. La Comune fu sconfitta, la rivoluzione del 1905 fu sconfitta, ma poi venne il 1917. Anch’esso è risultato - alla lunga - sconfitto da pesanti errori di direzione politica intervenuti nel corso della transizione socialista, dal coalizzarsi di forze esterne che hanno reso sfavorevoli i rapporti di forza. Ma dopo la sconfitta potrebbe riprendere con forze rinnovate la sua marcia e ingaggiare battaglie vittoriose. Parlare di fallimento, al contrario, implica la messa in discussione delle origini stesse, delle finalità della rivoluzione, dei suoi presupposti teorici e politici. Dunque, la ricerca di un “peccato originale”. Di fronte al rapido liquefarsi di regimi politici che solo qualche anno prima apparivano ancora abbastanza solidi, almeno sul piano dell’apparato statale, la parola fallimento sembrava il minimo che si potesse dire di quanto stava accadendo. Ci fu invero qualcuno che inneggiò a “rivoluzioni democratiche e non violente” e volle leggere l’89 come una nuova primavera dei popoli liberati dalla tirannide, cui si spianava la strada di magnifiche sorti e progressive della democrazia e dello sviluppo, ma molto rapidamente – almeno nella parte critica marxista – queste illusioni furono abbandonate di fronte al disastro sociale successivo alla caduta delle democrazie popolari e dell’URSS e ai programmi ultracapitalistici e di restaurazione politica e culturale (in alcuni casi con la rilegittimazione di forze apertamente fasciste) che i nuovi “democratici” stavano attuando, burattini nelle mani dei grandi monopoli transnazionali e delle politiche dei loro stati imperialisti. Non c’era stata, come avevano teorizzato Trotskij e la IV Internazionale, l’auspicata rivoluzione proletaria contro l’odiata “burocrazia”, ma il trionfo di una borghesia compradora delle peggiori. Una volta rovesciati i regimi politici e passati di campo molti di quei dirigenti che si proclamavano i più tenaci e fidati comunisti, si passò quindi a leggere tutta la storia delle rivoluzioni come “fallimento”. Sembra normale e ovvio usare questa parola, ma essa non è neutra né innocente. E chi ne fa uso mette in discussione dalle fondamenta l’intero progetto comunista o, almeno, tutta la storia delle rivoluzioni del ‘900, a partire da quella più dirompente e duratura, che dette il via  ad un intero secolo e da cui si propagarono altre rivoluzioni socialiste, possenti movimenti anticoloniali e antimperialisti, partiti comunisti che organizzarono e diressero lotte fondamentali e il movimento dei lavoratori nelle cittadelle capitalistiche, contribuendo a sconfiggere il fascismo con la resistenza popolare e a trasformare parzialmente gli stati, strappando non disprezzabili (e oggi perduti e rimpianti) diritti e garanzie per le classi operaie: la rivoluzione d’Ottobre.

Ma in questo modo si tagliava più o meno consapevolmente il ramo su cui poggiava la prospettiva socialista del ‘900. Nell’apparente constatazione di un’ovvietà si confluiva, volenti o nolenti, nelle maglie del vecchio discorso borghese sul peccato originale del ‘900. I tentativi di ricostruzione analitica di un percorso complesso, di indagine differenziata sulle ragioni della dissoluzione dell’URSS non sono certo mancati. Ma nel senso comune della sinistra è passata la spiegazione più semplicistica e semplificatoria, quella che evitava di cimentarsi con le asprezze, le difficoltà, le contraddizioni degli andirivieni della storia di uomini in carne ed ossa, e cercava, con un colpo di bacchetta magica, il passepartout della soluzione immediata a una questione tanto complessa. Invece che seguire un percorso, si troncava la questione all’origine, se ne dava, al pari delle peggiori semplificazioni propagandistiche borghesi, una spiegazione monocausale immediatamente spendibile sul mercato della politica quotidiana: fallimento. Per cui si preferisce voltare pagina, provare a scriverne una del tutto nuova, totalmente e candidamente bianca, senza doversi sobbarcare il peso di un’eredità ingombrante. È l’equivoco del “nuovo inizio” senza aver regolato i conti con la propria storia. L’aspetto più inquietante di questa operazione di cesura netta e di ripudio di un’intera storia è nell’illusione di una rapida scorciatoia: non è una negazione dialettica (ciò implicherebbe la fatica del discernere, dell’analizzare, del fare i conti in modo particolareggiato con il passato comunista), ma la rimozione, l’evacuazione del problema, che viene apparentemente assunto in tutto il suo peso, per essere subito dopo cancellato. Quando, sull’onda della caduta del muro di Berlino, il PCI subisce una “mutazione genetica” che richiede di cambiare, in un atto che non è assolutamente una mera concessione all’esteriorità, anche simboli, denominazione, icone, si sancisce esplicitamente un passaggio di campo teorico: tutta l’esperienza storica delle rivoluzioni del ‘900 e in particolare dell’URSS è vista come un fallimento. Il fallimento non è la sconfitta ma implica la radicale messa in discussione dei presupposti su cui si fondarono i partiti comunisti, dell’ideologia, del progetto, delle prospettive. A differenza dal passato, in cui la cultura del PCI aveva progressivamente preso le distanze dall’URSS, non si trattava qui di condannare errori di un modello – era già stato elaborato per una breve stagione l’eurocomunismo della “terza via” – l’autoritarismo, la scarsa democrazia, ecc., ma il progetto stesso. Insomma, si prendeva atto che non di errori o di incidenti di percorso si era trattato, ma di una pretesa sbagliata nei suoi presupposti, alla radice: il socialismo, la società socialista era l’errore. La pretesa di passare ad un altro modo di produzione, ad altri rapporti di proprietà, era l’errore. L’unico modo di produzione adeguato era quello del capitale, da innervare possibilmente di “democrazia”, ma pur sempre capitale. Tutto l’asse del discorso si spostava sulla “democrazia”, ma intesa puramente nei suoi meccanismi formali di regole del gioco da rispettare, di “stato di diritto”, ben lontana dunque dalla visione togliattiana di una “democrazia progressiva” che, attraverso una ben organizzata “guerra di posizione” spostasse progressivamente i rapporti di forza e modificasse la struttura economico-sociale del paese in senso socialista (le “riforme di struttura”). Ecco perché il partito si trasformava in partito democratico e cassava la parola stessa non solo di “comunismo”, ma anche di “socialismo”.

Rottura con le radici del ‘900 ed abbandono della prospettiva socialista, crisi dell’URSS e avanzare del neoliberismo vanno di pari passo, si sostengono a vicenda. L’ideologia del PCI subì l’attacco neoliberista e vi cedette, ritirandosi non dal comunismo, ma dalla stessa tradizione socialdemocratica: fu progressivamente abbandonato il ruolo che allo stato si assegnava nella trasformazione sociale, non si rivendicò più l’intervento statale in economia, si accettarono le privatizzazioni. D’altro canto, il crollo dell’URSS poteva essere portato a sostegno della tesi del fallimento dello “statalismo”, rafforzava la proposta “neoliberista”. In conclusione, la nuova chiave interpretativa offerta dal PCI (poi DS) post 1989 per la storia delle rivoluzioni del ‘900 fu di tipo liberaldemocratico. Erano le stesse conclusioni cui giungevano i “democratici” eltsiniani e lo stesso Gorbaciov in URSS dopo il 1989: il problema non era quello di buoni o di cattivi dirigenti, che avevano indirizzato in senso sbagliato la politica sovietica, il problema non era Lenin, Stalin, Krusciov o Breznev, ma il sistema in sé, la proprietà statale dei mezzi di produzione, l’assenza di mercato e di proprietà privata capitalistica. Si passò rapidamente al dogma che senza mercato capitalistico non può esservi democrazia. Tutta la grande questione della vita democratica nella società socialista veniva aggirata e resa obsoleta con un colpo da maestro: è il mercato e solo il mercato (capitalistico, va da sé!) che consente la democrazia; democrazia senza mercato non può darsi. La forza semplificatrice di questa impostazione mistificante – paradossalmente “marxista” sui generis, in quanto indicava una causa strutturale (economica) e non sovrastrutturale (politica) – è evidente. Una richiesta di democrazia si legava così a quella di passaggio al mercato, cioè allo smantellamento della proprietà statale e alla sua privatizzazione. Ma sulla base di queste premesse non vi è più alcun interesse ad individuare le fasi storiche, gli snodi, i passaggi cruciali, i diversi andirivieni di una storia complessa. Ormai è stato individuato il peccato originale, che è nell’idea che si possa arrivare ad una proprietà sociale dell’intera società, a socializzare i mezzi di produzione. Non si discute più se la socializzazione in URSS sia effettiva o fittizia, o inceppata da meccanismi sfuggiti al controllo, o parziale, imperfetta, ma si mette in discussione la socializzazione in sé, la prospettiva stessa del comunismo viene considerata falsa e criminale, un’utopia negativa irrealistica che presume di poter mettere sotto controllo tutto il mondo, un mondo che tuttavia il pensiero borghese ritiene non pianificabile. La conclusione che si tira è la stessa delle critiche anticomuniste del primo ‘900: il terribile “leviatano” comunista è figlio di questa pretesa, la violenza, la repressione, il totalitarismo, sono conseguenze necessarie di questo folle progetto; Stalin non è la deviazione da un percorso sano, ma l’esplicazione, la realizzazione di questo; l’errore non è in Stalin, ma in Lenin. A questa impostazione perciò non interessa guardare i diversi passaggi della storia del ‘900, interessa denunciare l’errore originario e prendere definitivamente le distanze da tutta quella storia. Persino da quella delle socialdemocrazie, accolta e legittimata solo in quanto progresso democratico, lotta per lo stato di diritto, non per l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione su cui tanto insistevano anche i più decisi avversari di Lenin, gli austromarxisti degli anni Venti. Forse si è fatto poco caso al fatto che la trasformazione del PCI in partito democratico della sinistra ha significato l’abbandono di ogni prospettiva socialista e dunque anche di ogni interesse a cercare nella storia del comunismo mondiale degli esempi da imitare o degli errori da evitare: non si trattava più di errore - l’errore implica l’esistenza di una via giusta da cui si è errato, deviato -, ma di fallimento iniziale. Confluivano così in questa impostazione le vecchie critiche liberali e liberiste al progetto comunista, che non si ponevano sul terreno dell’analisi storica, ma del ripudio ideologico. La storia delle rivoluzioni veniva studiata solo per trovarvi la dimostrazione dell’impossibilità del comunismo e della sequela di misfatti che necessariamente derivano da quella pretesa. La storia delle rivoluzioni comuniste del ‘900 è stata prima rimossa, dimenticata, ora ripudiata e condannata al silenzio. Verso di essa non si mostra oggi nessuna “simpatia critica”, nessuna passione, nessun interesse militante. La ragione di fondo è che essa viene letta come fallimento, mettendone in discussione i fondamenti della conquista del potere politico per attuare attraverso esso la transizione alla proprietà socialista dei mezzi di produzione. La categoria di fallimento è adoperata da destra (la negazione del mercato capitalistico porta alla negazione della democrazia); e da sinistra (lo “statalismo” comporta il rovesciamento e l’eterogenesi dei fini). Il fallimento è la semplificante chiave di lettura che consente di evitare la fatica dell’analisi e della ricerca dei percorsi. Dal punto di vista dell’apprendimento e dell’azione politica presente, quella storia viene considerata inutile, non interessante, incapace di insegnare alcunché. Il giudizio negativo è già tracciato, la spiegazione data una volta per tutte. Dagli archivi sovietici potranno uscire montagne di documenti per lo studio e il lavoro della cerchia degli studiosi di professione, ma ciò non appassionerà né susciterà l’interesse dei militanti comunisti più di quanto non faccia un qualche archivio del medievale impero bizantino. Nei confronti delle rivoluzioni del ‘900 non è in atto un attacco revisionistico, ma il ripudio di un’eredità, la fuoriuscita da un orizzonte entro il quale è stata pensata e praticata la transizione al socialismo. Il dato attuale è caratterizzato da una grande povertà di studi appassionati e critici, dalla parte del proletariato, sulle esperienze delle rivoluzioni del ‘900. Nella situazione politico-culturale data, che, se non contrastata, è prevedibile tenda ad ulteriori cedimenti, la questione dell’eredità delle rivoluzioni socialiste del ‘900 si presenta come battaglia culturale prioritaria. Essa è oggi una delle responsabilità intellettuali più gravi. Nell’assenza, nel silenzio dei comunisti, dei marxisti, è l’altra parte, quella interessata al mantenimento e rafforzamento dell’egemonia dei dominanti che detta l’agenda politico-culturale. Gli intellettuali marxisti dovrebbero rivendicare a pieno questa eredità. Rivendicare un’eredità non significa certo prendere per oro colato tutto ciò che vi è in essa, anche perché essa non si presenta – al contrario di quel che vorrebbero i semplificatori alla ricerca di un passepartout monocausale – come univoca e omogenea, ma fatta di discontinuità, salti, rotture all’interno di un processo di transizione. Ma significa assumerla nel complesso come parte di una propria storia dalla quale riprendere un percorso di emancipazione È una storia che va studiata in modo militante, con “simpatia critica”, cercando di comprenderne il percorso accidentato, senza per ciò essere acriticamente e dogmaticamente apologetici o giustificazionisti.

In Unione Sovietica, e nel mondo intero, non si può quindi, e non si deve, parlare di fallimento (di un’ideologia) bensì di sconfitta (di un’esperienza).

Ma che tutti sappiano... in ogni parte del mondo continua la  lotta di centinaia e centinaia di milioni di esseri umani, in marcia ancora oggi e poi domani, per rompere le proprie catene, nel ricordo delle parole che Marx pronunciò sulla Comune nel marzo 1871 mentre si combatteva ancora a Parigi: "Se la Comune fosse distrutta, la lotta sarebbe semplicemente rinviata. I principi della Comune sono eterni e indistruttibili; essi si ripresenteranno continuamente fino al momento in cui la classe operaia avrà conquistato la sua emancipazione".

 




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