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DEFICIT PUBBLICO E DEBITO PUBBLICO IN ITALIA
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- Di Comintern
- Martedì, 30 Luglio 2019 19:33
Di questi tempi, tutti parliamo di «deficit pubblico» ma pochi di noi sanno di cosa si sta parlando; questo termine è conosciuto anche come «disavanzo pubblico» da non confondere con «debito pubblico». Vista la grande confusione ed il potente uso della demagogia nella prassi e nella comunicazione di questo governo penso sia il caso di chiarirci le idee. Qual è, in primis, la differenza tra deficit pubblico (oppure disavanzo pubblico) e debito pubblico? Il deficit pubblico è la differenza tra le uscite e le entrate statali: le entrate derivano dalle imposte dirette, indirette e dai contributi versati dai lavoratori mentre le uscite dipendono dalla spesa pubblica in beni e servizi e dagli interessi passivi sui prestiti dello Stato. Le principali voci di spesa pubblica in Italia includono le pensioni e l’assistenza sociale, l’istruzione, la sanità e gli stipendi pagati ai dipendenti pubblici. Quando le entrate sono maggiori delle uscite (al netto degli interessi) si registra un "avanzo primario" o "avanzo di bilancio" mentre il "disavanzo pubblico" o "deficit pubblico" si verifica invece quando le uscite statali superano le entrate. Il deficit pubblico si esprime solitamente in percentuale rispetto al PIL.
Quando un Paese registra un disavanzo esistono due modi per finanziarlo: (1) prendere denaro a prestito dai mercati oppure (2) stampare moneta attraverso la propria Banca Centrale. Ma quanto vale il deficit pubblico dell’Italia? La risposta è data dal bilancio annuale dello Stato: nel 2018, la spesa pubblica in Italia è di 848,9 miliardi di euro che comprendono, però, 62 miliardi di euro di spesa per gli interessi sul debito e nello stesso periodo le entrate ammontano a 819 miliardi di euro. Il deficit pubblico italiano vale 29,9 miliardi di euro ed è dato dalla differenza tra le uscite e le entrate complessive. Il rapporto tra deficit pubblico e PIL vale 1,7% a dimostrazione del fatto che, a livello di conti pubblici, l’Italia è uno dei paesi più rigorosi al mondo. L'Italia, infatti, escludendo la spesa per interessi (62 miliardi di euro) si trova in posizione di avanzo primario perché le entrate statali (32,1 miliardi di euro) sono maggiori della spesa al netto degli interessi. I governi spendono di più a causa degli interessi che si devono pagare sui debiti contratti per il passato pur avendo l'Italia, a parte il 2009, sempre mantenuto un avanzo primario negli ultimi 23 anni. Nessun paese europeo, nemmeno la Germania, ha fatto meglio. A questo punto viene spontanea una domanda: "perché allora in Italia è così tanto preoccupante il deficit pubblico? Come detto prima, sull'Italia gravano 62 miliardi di euro come spesa per interessi e questi si sommano alla spesa pubblica corrente; gli interessi sono quelli che l’Italia paga a coloro che detengono i suoi titoli di stato (BOT, BTP, CCT). Ed è proprio a causa della spesa per interessi che, ogni anno, l’Italia "brucia" l'avanzo primario e registra un deficit pubblico. Il debito pubblico è dato, praticamente, dalla somma di tutti i deficit pubblici registrati negli anni.
Cosa si intende, invece, per rapporto Deficit/PIL e perché il vincolo è fissato al 3%?
La soglia del 3% è uno dei pilastri della disciplina di bilancio dell’Unione Europea ed è sancita nei parametri del Trattato di Maastricht del 1992 ma nessuna teoria economica è alla base e/o ha dato fondamento scientifico a questa soglia. Il quotidiano tedesco «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e prima ancora il francese «Aujourd'hui en France -Le Parisien» hanno svelato l'arcano: la soglia del 3% come rapporto deficit/PIL fu elaborata negli anni '80 da un sconosciuto funzionario del governo di François Mitterand, Guy Abeille, ai tempi non ancora trentenne. La storia andò così: dopo la vittoria alle elezioni del 1981 in Francia i socialisti guidati da Mitterand per mantenere le costose promesse elettorali avevano portato il deficit da 50 a 95 miliardi di franchi. Per essere in regola con quanto promesso, Mitterrand incaricò il vice direttore del dipartimento del Bilancio al ministero delle Finanze di implementare una regola per evitare spese pubbliche all'impazzata. Questi contattò due giovani esperti che avevano una formazione economica e matematica all'Ensae: Roland de Villepin (un cugino del futuro primo ministro Dominique de Villepin) e Guy Abeille: sarà quest'ultimo ad elaborare il paletto del 3% sul Pil, nato però, per sua stessa ammissione, senza alcuna base scientifica: «Prendemmo in considerazione i 100 miliardi del deficit pubblico di allora. Corrispondevano al 2,6 % del Pil. Ci siamo detti: un 1% di deficit sarebbe troppo difficile e irraggiungibile. Il 2% metterebbe il governo sotto troppa pressione. Siamo così arrivati al 3%. Nasceva dalle circostanze, senza un'analisi teorica». Fatta questa "simpatica" digressione, torniamo al problema: cosa accade se si supera la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e PIL? In primo luogo, la Commissione europea emette un avvertimento preventivo e poi una vera e propria raccomandazione allo Stato Membro. Successivamente, scattano le sanzioni. Tuttavia, non bisogna allarmarsi oltremodo se si supera la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e PIL. Questo può avvenire per tutta una serie di buone ragioni: nel 2009, primo anno dopo lo scoppio della crisi finanziaria, tutti i Paesi avanzati registrarono ampi disavanzi di bilancio proprio per far fronte alla dirompente crisi. Anche dopo il 2009, però, alcuni Paesi come Spagna, Francia, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti hanno ripetutamente superato quella soglia. Può, allora, anche l'Italia superare il vincolo del 3% e semmai proprio nella prossima legge di bilancio così come qualche ministro ha cominciato a sussurrare? Molti, però, temono che questa scelta possa avere serie ripercussioni in termini di fiducia dell’Italia sui mercati finanziari, facendo crescere lo spread e i rendimenti dei nostri titoli. In realtà non è tanto il deficit a preoccupare perché a pesare come un macigno è piuttosto l’enorme ammontare di debito pubblico accumulato negli anni e che oggi vale il 130% del PIL. Su quella montagna di debito grava un onere annuale - la spesa per interessi - che annulla gli sforzi del governo generando deficit. Tuttavia, è bene chiarire che maggior deficit non si traduce per forza in un incremento del rapporto tra debito pubblico e PIL perché se è quando un'economia cresce più della percentuale di deficit rispetto PIL, allora il rapporto debito/PIL scende. Questo, per il nostro Paese, vale in teoria perché le speranze che oggi l’Italia possa crescere ad un tasso maggiore del 3% sono praticamente nulle nella situazione economica data e nell'approccio che (tutti) i governi borghesi hanno fin qui hanno adottato. Il "circolo vizioso" da spezzare - ci ripetono da anni economisti borghesi - è quello relativo alla stagnazione della produttività per cui, se non vengono attuate riforme che stimolano la crescita, l’unica via per ridurre il peso del debito pubblico è quella di mantenere un deficit contenuto. Ebbene, negli ultimi anni il rapporto tra debito pubblico e PIL è aumentato, non diminuito, e questo - insieme ad una informazione economica tendenziosa - ha indotto molti cittadini a credere che le politiche di austerità in Italia non siano state fatte, o quantomeno che non siano state fatte a sufficienza: al contrario, i tagli alla spesa pubblica e l’aumento della pressione fiscale ci sono stati e proprio per questo il rapporto debito/PIL è aumentato. Il fondamento economico per cui le politiche di austerità fiscale possono in molti casi peggiorare ciò che dicono di voler migliorare – ossia il rapporto debito/PIL – risiede nel fatto che, per via del moltiplicatore fiscale, la riduzione di debito pubblico attuata, ad esempio, grazie ad un avanzo di bilancio può causare una riduzione del denominatore del rapporto (il reddito) di proporzione maggiore della riduzione del numeratore (il debito pubblico). In altre parole, un consolidamento fiscale, inteso come taglio della spesa e/o aumento delle tasse, può far crescere il rapporto debito/PIL invece di ridurlo. Per queste ragioni il principio del bilancio in pareggio, introdotto in Costituzione nel 2012 ed in linea con le linee di politica economica dettate dal «Fiscal Compact» non è virtuoso ogni qual volta l’economia del Paese si trovi in una fase ciclica negativa o comunque vi siano poco lavoro e scarsa capacità produttiva con gli impianti delle imprese inutilizzati o sotto-utilizzati. Quando nel rapporto col deficit il PIL diminuisce, come accaduto in Italia e in altri Paesi dopo il 2008 a causa di una crisi importata e causata da eventi esterni al nostro sistema economico, il disavanzo pubblico cresce fisiologicamente come conseguenza della diminuzione del PIL e quindi della diminuzione di tutte quelle entrate fiscali che sono proporzionali al reddito (IVA, IRPEF e IRAP). Inoltre, altrettanto fisiologicamente aumentano le spese per i cosiddetti “ammortizzatori sociali” ed in particolare per i sussidi di disoccupazione e per la cassa integrazione. Tale aumento del disavanzo ha però una funzione di stabilizzazione del reddito, tende cioè a ridurre gli effetti negativi della crisi. Se in tali circostanze si cerca di ridurre il disavanzo tagliando la spesa o aumentando le tasse – soprattutto sui redditi più bassi – ciò riduce ulteriormente la domanda aggregata e quindi la produzione, generando ulteriori effetti negativi sulle entrate fiscali e aumento delle spese per ammortizzatori sociali con effetti perversi sul rapporto debito/PIL. L’evidenza pratica porta a verificare che, al contrario di quanto spesso sostenuto da economisti borghesi, le politiche di austerità che hanno effettivamente trovato applicazione in Italia dalla fine del 2011 hanno contribuito a peggiorare il quadro recessivo. Le politiche fiscali restrittive, stando alle quali il contenimento del debito pubblico deve avvenire soprattutto tramite tagli alle varie voci di spesa, hanno contribuito a peggiorare i “problemi” che si diceva avrebbero contribuito a risolvere. Di conseguenza, economisti di sinistra – non necessariamente marxisti – ritengono che adeguate politiche di aumento della spesa possano contribuire a ridurre il rapporto debito/PIL attraverso la crescita del reddito. Quali sono allora le sostanziali differenze tra chi sostiene il taglio della spesa pubblica e chi invece il suo incremento? Quando viene detto che lo Stato ha risparmiato sulla spesa pubblica è sempre una bruttissima notizia per il PIL e soprattutto per le tasche gli italiani: affermare che se si taglia la spesa pubblica è possibile abbassare le tasse della stessa quantità del taglio, in modo da stimolare consumi ed investimenti è falso. Non è così, non è possibile che ciò avvenga. La spesa pubblica è l’unica variabile in grado di far crescere il PIL, sia nel breve che nel lungo periodo, facendo appunto direttamente crescere anche tutte le sue altre componenti, che non sono autonome ed indipendenti dalla spesa.
Gli analisti borghesi dimenticano (volontariamente) il problema costituito dal risparmio, che ovviamente incide negativamente sui consumi e di conseguenza sul PIL. I soldi che la gente accantona anziché spendere, diminuiscono i consumi, e siccome la spesa degli uni diventa il reddito di altri, questa dinamica causerà una diminuzione di reddito nell’economia; ad un calo dei consumi inoltre segue spesso un calo degli investimenti, anche se i tassi di interesse sono tenuti bassi, perché gli imprenditori hanno meno fiducia nella possibilità di rientrare del capitale utilizzato.
La propensione al risparmio (oltre il 30% della ricchezza finanziaria degli italiani, più di 4.000 miliardi, giace su conti correnti, libretti postali e conti deposito di banche e posta oppure in mano a Compagnie di assicurazione) non impedisce però che il PIL possa crescere; di fatti lo Stato, tenendo conto proprio della propensione media al risparmio può (deve) modulare la spesa pubblica per sostenere il livello del PIL desiderato.
Questo per dire che il ragionamento più gettonato nei media borghesi – che si possano tagliare le tasse per far ripartire i consumi e gli investimenti, finanziando l’operazione con la riduzione della spesa pubblica – è falso perché fuorviante. Quello che accade, come abbiamo visto in precedenza, è in realtà il contrario e lo abbiamo toccato con mano specialmente in Italia in questi anni di austerità imposta dai vincoli europei. Ma cos’è accaduto in sostanza nei Paesi che, come in Italia, hanno tagliato la spesa? È successo che questa politica ha comportato tagli dei posti di lavoro che dipendevano e/o erano connessi direttamente o indirettamente con la dinamica spesa pubblica e, di conseguenza, minore quantità di reddito disponibile da destinare ai consumi: diminuendo i consumi si è verificato un ulteriore aumento di disoccupazione dovuto alla compressione delle vendite e così avanti in circolo vizioso senza fine.
Quindi meno spesa pubblica meno redditi, meno redditi meno consumi, meno consumi meno investimenti e più disoccupati: il risultato è che il PIL diminuisce!!
Anche perché gli effetti dei tagli alla spesa pubblica non sono uniformi ma pesano diversamente sulle varie classi sociali, causando la perdita del lavoro per alcuni e soprattutto – per tutti – la diminuzione del welfare con maggiori spese a carico della cittadinanza che impattano di più sulle fasce di reddito medio-basse, rendendo poi necessaria allo Stato comunque, nel primo caso, una maggiore spesa pubblica per attivare ammortizzatori sociali come i sussidi di disoccupazione (finanziabili proprio con un aumento della spesa pubblica) oppure, nel secondo caso, costringendo le persone a rinunciare alle cure mediche col rischio concreto, come tragicamente avviene oggi, di lasciarsi letteralmente a morire.
A ciò si aggiunge che l’Italia ha inserito – nel rispetto dei vincoli monetaristici dell’economia borghese europea – la clausola del pareggio di bilancio in Costituzione (art.81) che costringe i governo al rispetto, tra i tanti obblighi, anche del vincolo del 3 % del rapporto deficit/PIL ritenuto da alcuni troppo basso per permettere allo Stato di indebitarsi per tagliare le tasse o per finanziare investimenti e attività in favore della crescita.
E per far ripartire il settore privato come viene finanziato in generale l’aumento della spesa necessario? In deficit nei paesi (extraeuropei) che hanno sovranità monetaria ma in ambito eurozona, considerati i vari trattati sottoscritti, solo con aumenti delle tasse.
Per questo motivo gli italiani non hanno mai visto diminuire la spesa pubblica per poi tagliare le tasse; di fatto da un lato sono arrivati i tagli alla spesa pubblica e dall’altro gli aumenti delle tasse (dirette o indirette) conseguenti alla recessione causata dai tagli alla spesa pubblica stessa.
Ma allora, si potrebbe dire, la soluzione è tagliare le tasse lasciando inalterata la spesa? Con i vincoli europei l’Italia non può farlo e, comunque, non sarebbe la soluzione opportuna perché nello stato comatoso della nostra attuale economia non è certo che si otterrebbero effetti così virtuosi sia dal lato dei consumi, degli investimenti che, dall’altro, su occupazione e sul PIL.
E tutto questo è dovuto anche alla sfiducia percepita dai cittadini relativamente al fatto che l’aumento del reddito disponibile che si verrebbero a trovare in tasca, per effetto della riduzione fiscale, finirebbe per essere tutto o quasi risparmiato (come sopra detto migliaia di miliardi depositati in banca e posta oppure dati alle Compagnie di assicurazione) per far fronte a ipotetiche necessità future, senza sortire alcun effetto apprezzabile sulla domanda aggregata e quindi su consumi, investimenti e sul PIL.
Alla fine del ragionamento si capisce bene che l’unico modo per smuovere e far ripartire l’economia e dare risposte alla crisi è la spesa pubblica: nell’esatto momento in cui lo Stato spende, quella spesa diventa reddito per qualcuno e quel reddito si dividerà tra consumi e risparmi. Ma non solo.
L’aumento di spesa pubblica protratto nel tempo in una economia depressa con alti tassi di disoccupazione, ne causerà la diminuzione con effetto naturalmente positivo sulla propensione media al consumo – perché se l’incertezza diminuisce, la gente può fare a meno di detenere troppa moneta e spende più volentieri. Semplificando, questo scenario economico fa crescere il PIL ed in forza della sua crescita, dovuto all’aumento della spesa pubblica, il rapporto debito/PIL scenderebbe.
Quindi ferma la necessità attuale di fare investimenti pubblici e, più concretamente, spesa in deficit per tornare a crescere – dunque con lo Stato che deve tassare meno di quanto spende – è possibile oggi, per uscire dalla crisi, attuare solo un taglio fiscale senza intervenire sulla spesa pubblica? Assolutamente no, come già detto.
Solo la spesa pubblica ha un immediato effetto su PIL perché aumenta istantaneamente i consumi, specialmente se accompagnata con politiche redistributive a favore dei redditi più bassi e delle pensioni che, anche a causa dell’eliminazione della scala mobile, sono rimaste ferme per anni.
E la scala mobile non provocava assolutamente inflazione ma proteggeva dalla stessa; fu la crisi petrolifera dovuta alle guerre in medio oriente a causare l’inflazione degli anni 70.
Ecco perché – in costanza però di un serio governo di sinistra e non di governi fantoccio al soldo del capitale finanziario – dalla crisi si può uscire con una riduzione fiscale abbondante stimabile, prudentemente tanto per cominciare, con una misura stimata dagli analisti non inferiore ai 15 punti percentuali complessivi ma anche un massiccio piano di assunzioni pubbliche per almeno 800 mila unità (sanità, giustizia, sicurezza) ed un contestuale aumento delle pensioni per le fasce medio-basse.
Si può e si deve poi anche spendere, molto e bene, per la messa in sicurezza progressiva del territorio nazionale dai rischi sismici ed idrogeologici, contemplando con una tale spinta anche il parallelo rilancio immediato (controllato) del settore privato che non potrebbe mai avvenire con analoga rapidità ed efficacia con il procedimento inverso, ovvero abbassando solamente le tasse. Così l’Italia così uscirebbe finalmente dalla crisi.
Non è pensabile quindi rilanciare investimenti e consumi partendo dall’ipotesi che la gente, solo con più fiducia di pagare meno tasse e più fiducia nella congiuntura economica, dia fondo ai propri risparmi: questo fenomeno è marginale e soprattutto non può durare a lungo ma è quanto sostengono gli economisti che servono l’alta finanza internazionale.
Le persone spendono, risparmiano ed investono secondo i loro gusti, la loro cultura e la loro fiducia nel futuro; in Italia la propensione media al risparmio è sempre stata molto alta e questo necessita a parità di altri fattori di una maggiore spesa da parte dello Stato per non rallentare l’economia.
Quella moneta che non viene spesa perché accantonata come risparmio potrà essere sempre compensata con una maggiore spesa dello Stato. E da dove si prendono i soldi per spingere la spesa pubblica per rilanciare l’economia? Se non fossimo agganciati all’euro la più logica della risposta sarebbe creando moneta ma nelle condizioni attuali e con i governi borghesi ininterrottamente al servizio del capitale internazionale i margini di manovra sono ridotti per non dire inesistenti. Con un governo socialista di transizione, puntando a trasformare il modo di produzione ed i rapporti di produzione, si potrebbe iniziare a lavorare ad un prelievo forzoso che arriverebbe dalla rendite parassitarie, dalle spese militari, dalle aree di privilegi di persone fisiche e di persone giuridiche, dal contrasto all’evasione e all’elusione fiscale, dal recupero dei capitali illegalmente trasferiti all’estero, dalla proporzionalità e dalla progressività dell’imposizione fiscale a vantaggio dei redditi da lavoro. Per arrivare a tanto , però, bisogna cambiare lo stato di cose presenti in questa questa Europa!!
Luglio 2019