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IL DEBITO PUBBLICO SERVE ALLO STATO
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- Di Comintern
- Venerdì, 17 Gennaio 2025 05:25
Nel novembre 2024, il debito pubblico italiano ha superato per la prima volta la soglia psicologica record dei 3.000 miliardi di euro, triplicando così il suo valore in trent’anni e aumentando di ben 24 miliardi rispetto al mese precedente. Secondo i dati diffusi da Banca d’Italia, il rapporto con il PIL è attualmente del 136,8% - inferiore al periodo post-pandemico allorquando si arrivò al tasso record del 155% - ma, comunque, incredibilmente elevato, dal momento che corrisponde a 50.944 euro per ogni italiano. E si tratta di un primato decisamente poco invidiabile che costituisce una zavorra per il nostro Paese e per le future generazioni. Per decenni il debito pubblico è stato descritto come un fardello, un macigno che ci schiaccia. A marzo 2020, l'Europa fu colta di sorpresa dalla pandemia, ma si leggeva sul Financial Times che secondo Mario Draghi, che da pochi mesi aveva lasciato la presidenza della Banca Centrale Europea, la risposta alla crisi avrebbe dovuto comportare "un significativo aumento del debito pubblico". Ma già da tempo un altro esponente di prestigio dell'ortodossia finanziaria, Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale affermava cose simili allorquando, nel 2019, scriveva che "un debito più alto non porta per forza a tasse più alte" e "se il tasso di crescita supera il tasso di interesse, il rapporto debito/Pil diminuirà nel tempo senza la necessità di aumentare le tasse". Una posizione in seguito ribadita anche da Francesco Giavazzi, principale consigliere di Draghi a Palazzo Chigi allorquando a gennaio 2021 ha scritto: "E un errore continuare a ripetere che il nostro problema maggiore è il debito pubblico: il nostro problema maggiore sta nell'assenza di crescita. Se la nostra economia crescesse più rapidamente del nostro debito, ripagarlo non sarebbe necessario". Concetto che Giavazzi l’anno dopo ha rafforzato, affermando che "il debito è un concetto del secolo scorso" e che "se non hai un piano buono chiudi il rubinetto, se invece hai un buon progetto lo finanzi". In pratica, la questione chiave è che il debito pubblico è ritenuto diverso dai debiti privati: si rinnova continuamente («roll over») e non si deve mai ripagare una volta per tutte. Tentativi di ridurre drasticamente o addirittura ripagare del tutto il debito pubblico hanno, infatti, spesso portato a crisi finanziarie: nel 1996 l'economista Frederick Thayer faceva notare che "gli Stati Uniti hanno attraversato sei depressioni economiche significative e ognuna di esse fu preceduta da un prolungato periodo di riequilibrio di bilancio". Il punto fondamentale dal quale e sul quale gli economisti elaborano ed affinano questa teoria è che lo Stato non è inteso come una famiglia al punto che il prestigioso economista "liberal" americano, John Kenneth Galbraith riteneva che “il confronto tra famiglia e Stato non sta in piedi. La ricchezza e la solvibilità di una nazione dipendono da ciò che produce la sua economia”. Se prestiti e spese fanno aumentare la produzione, come sostiene Keynes, accrescono anche la sua solvibilità e solo di rado invece i prestiti e le spese aumentano la ricchezza di una famiglia. In più c'è anche un altro aspetto da sottolineare: una famiglia ha un orizzonte temporale limitato, lo Stato no, perché nasce e crolla, ma non “muore” per cause naturali come le famiglie. Il debito pubblico è fondamentale perché, negli assetti istituzionali attuali, permette di sostenere la spesa pubblica e quindi l'attività economica. Quindi, in un sistema economico e politico funzionante, il debito pubblico è il titolo più sicuro in assoluto, se "usato" e "sostenuto" da una poderosa crescita economica, anche in situazioni di inflazione moderatamente alta, perché questa situazione può anche, addirittura, portare giovamento al Pil. Secondo dati elaborati da analisti finanziari, a gennaio 2024 il 27,9% del debito pubblico era detenuto dai cosiddetti “non residenti” che sono una categoria comprendente i singoli investitori e gli istituti finanziari che non hanno la residenza in Italia. Da notare che questa percentuale è in continuo aumento da marzo 2023, quando è stato toccato il valore minimo degli ultimi anni (26,1%) ma resta ancora lontana dal picco registrato a ottobre 2009 (41,3%). In base a questi dati, però, sarebbe scorretto dedurre che il 72% del debito pubblico italiano sia detenuto dalle famiglie e dai cittadini italiani, dato che quasi il 28% è detenuto dagli stranieri. Secondo i dati più aggiornati, infatti, il 24,2% del debito pubblico italiano è detenuto dalla Banca d’Italia, il 24% da altre banche centrali o banche e il 12,2% da altre istituzioni finanziarie, come la Cassa Depositi e Prestiti. Solo il rimanente 13,5% è detenuto dagli “altri residenti” che è una categoria nella quale rientrano principalmente le famiglie e i singoli investitori italiani. Ma per incrementare il Pil e per ridurre il rapporto debito/Pil, fermo restando lo sforamento dei parametri europei sul debito pubblico, bisogna cambiare radicalmente politica economica. E per percorrere questa via il governo deve puntare su massicci investimenti pubblici ed orientare quelli privati, aumentare la spesa pubblica con un deciso incremento delle assunzioni nella Pubblica Amministrazione, settore nel quale siamo molto indietro rispetto ai principali partner di riferimento, rilanciare lo sviluppo produttivo, spingere per aumenti salariali e per l’incremento delle esportazioni, gestire/favorire nel contempo un aumento, regolato, dell'inflazione che rimetta in moto la ripresa dei consumi. Un’inflazione che si riposizioni intorno al 2% – come la BCE suggerisce da tempo – è utile ai Paesi con elevati stock di debito, come l’Italia, proprio ai fini dell’incremento del Pil, al contrario della deflazione. Un'inflazione troppo bassa o una deflazione vera e propria, infatti, hanno un effetto negativo perché se lo stock di debito pubblico accumulato, da finanziare con nuove emissioni di titoli obbligazionari, è solitamente a prezzi costanti, e resta quindi invariato nel tempo, il Pil cala a prezzi correnti in quanto composto da valori che vengono aggiornati, in questo caso negativamente, con l’inflazione troppo bassa o peggio. Stando così le cose, la crescita del Pil, composto appunto da valori che vengono aggiornati con l’inflazione, dovrà invece essere (moderatamente) inflazionata e sospinta, quindi, da un aumento del salario medio per favorire il riequilibrio degli indici di debito (Debito/Pil) che tenderanno a scendere. In questo possente obiettivo può essere di aiuto al governo lo stanziamento delle somme previste dal «Recovery Fund» in aggiunta, però, ad un'azione incisiva su reddito e consumi delle famiglie italiane con investimenti pubblici che siano di traino a quelli privati al fine di rilanciare lo sviluppo produttivo e incrementare il Pil. Bisogna generare un effetto moltiplicatore: l'incremento della domanda fa aumentare la produzione; l'aumento della produzione porta a un aumento del reddito dello stesso ammontare, dato che domanda e produzione sono identicamente uguali in quanto assumono lo stesso valore per qualsiasi numero assuma la variabile; la crescita del reddito aumenta ulteriormente il consumo che a sua volta genera un aumento della domanda e così via. Se persiste un clima di forte incertezza c'è il rischio di compromettere l’efficacia degli eventuali stimoli alla domanda e quindi comprimere ulteriormente il Pil, le cui variabili principali sono, appunto, i consumi in quanto parte più importante degli impieghi e gli investimenti perché rappresentano il potenziale produttivo del Paese. È questa la variabile fondamentale della tenuta finanziaria di uno Stato. Questo è il problema principale dello Stato italiano. Questo è il problema che l’attuale governo del capitale non intende affrontare.