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CONTRO IL MUTUALISMO, PER IL COMUNISMO
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- Domenica, 01 Aprile 2018 04:32
“soddisfare le giuste esigenze del proletariato senza ledere i diritti acquisiti della borghesia”
(Proudhon, 12 gennaio 1853)
Nell’ottobre del 1846 Proudhon pubblica a Parigi la poderosa opera "Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère" che conteneva la proposta di scambiare le merci secondo il valore costituito, cioè il valore del lavoro in esse contenuto; in questo modo il lavoro sarebbe stato equamente retribuito e si sarebbe realizzata l’eguaglianza tra gli uomini.
Nell’opera, tra l’altro, Proudhon si scaglia contro le prospettive rivoluzionarie e comuniste e sostiene l’inutilità, anzi, la dannosità delle lotte per il miglioramento dei salari dei lavoratori.
Successivamente, nell'opera "De la capacite politique des classes ouvrieres" del 1864 egli spiega approfonditamente il concetto mutualistico: «Il sistema del Lussemburgo – lo stesso in sostanza di quello di Cabet, di Owen, di Campanella, delle sette cristiane, di Platone, ecc. – sistema comunista, dittatoriale, autoritario, parte dal principio che l'individuo è essenzialmente subordinato alla collettività ... e allo Stato... egli deve in tutto obbedienza e sottomissione. In forza di questo principio fondamentale della sovranità collettiva e della subordinazione individuale... tutto va allo Stato per essere poi ripartito e distribuito a ciascun cittadino membro della grande famiglia, in base alle sue attitudini e ai suoi bisogni, in nome della comunità o dello Stato. Abbiamo visto precedentemente come la scuola del Lussemburgo concepisse i rapporti dell'uomo con la società , del cittadino con lo Stato: secondo essa, si tratta di rapporti di subordinazione, e ne deriva una organizzazione autoritaria e comunista. A questa concezione statale viene ad opporsi quella dei partigiani della libertà individuale, secondo i quali la società deve essere considerata non come una gerarchia di funzioni e di facoltà , ma come un sistema di equilibri tra forme libere, in cui ognuno ha la garanzia di conseguire i medesimi diritti purché sottostia agli stessi doveri, di ottenere gli stessi vantaggi in compenso dei medesimi servizi; sistema questo essenzialmente egualitario e liberale. [...] Da queste premesse, nettamente contrarie a quelle del Lussemburgo, essi deducono una organizzazione basata sull'applicazione larghissima del principio mutualista. Servizio per servizio - affermano - prodotto per prodotto, prestito per prestito, credito per credito, ecc.: tale è la legge. In questo ordinamento il lavoratore non è un servo dello Stato, inghiottito dall'oceano comunista; è invece l'uomo libero, realmente sovrano, che agisce sotto la sua responsabilità personale, e di sua iniziativa, con la certezza di ricavare dal suo lavoro un compenso adeguato e di trovare presso i concittadini, per tutto il suo consumo, la lealtà e le garanzie più complete».
Proudhon rifugge dal compimento e dalla conclusione della battaglia politica in quanto la sua teoria della trasformazione sociale è incompleta perché non contempla il superamento integrale dei rapporti capitalisti di produzione ed è concorrentista e localmente cooperativa, perché bloccata alla visione borghese dell’azienda o del mercato.
Se, da un lato, sosteneva che la proprietà era un furto, dall'altro restava teoricamente prigioniero di un sistema mercantile che è un sistema proprietario e borghese e la sua "cecità" sulla rivoluzione economica è la stessa dei moderni "aziendisti" che ripetono in forma meno vigorosa la vecchia utopia di Owen che voleva liberare gli operai dando loro la gestione della fabbrica in piena società borghese; nel sistema di Proudhon è esaltato al massimo lo scambio individuale, il mercato, il libero arbitrio del compratore e del venditore, e si afferma che basterà adeguare il valore di scambio di ogni merce a quello del lavoro che essa contiene, per avere eliminato tutta la iniquità sociale.
Marx scrive, in francese, la sua risposta polemica a Proudhon, che uscirà come "Misère de la Philosophie. Reponse à La Philosophie de la Misère de M. Proudhon".
In quest'opera Marx demolisce i presupposti economici della teoria proudhoniana, dimostrando in particolare che il valore costituito – sua pietra angolare – non è altro che una malintesa rappresentazione del valore di scambio dell’economia classica e che tutta la costruzione su di esso basata rimane all’interno di una logica perfettamente omogenea ai fondamenti costitutivi dei rapporti economici nella società capitalistica.
E dimostra anche come non abbia senso, né economico né politico, prefigurare una società in cui le merci siano scambiate secondo il cosiddetto valore costituito, e che questo non porterebbe ad altro che a una generalizzazione della proprietà privata e dei suoi presupposti economici e ad un livellamento dei salari al minimo.
Per Marx c'è un abisso tra la costruzione di Proudhon di una società in cui il gioco illimitato della concorrenza, e l'equilibrio dell'offerta e della domanda, facciano il miracolo di assicurare a tutti le cose più utili e di prima necessità al "minimo costo" e la visione della società comunista di domani.
Proudhon, sostiene Marx, nel suo tentativo di eliminarne “i lati cattivi” sostituisce l’analisi economica con l’atteggiamento moralistico: ma la realtà non si può cambiare con i desideri e con le lamentazioni.
Le contraddizioni delle diverse epoche storiche per Marx non sono semplici difetti eliminabili ad opera del buon senso o del senso di giustizia: esse sono condizioni necessarie dello sviluppo sociale e del passaggio da una forma di società ad un’altra forma di società più matura.
Marx dimostra come alla base del sistema capitalista non ci sia lo scambio regolato dal “libero arbitrio” ma lo sfruttamento del lavoratore ed in tal senso egli critica l’idea di Proudhon (e di altri economisti dell’epoca) secondo cui il valore delle merci deriverebbe dalla quantità di lavoro impiegato a produrle, sostenendo, invece, che nella realtà del mondo capitalista è il salario – cioè il valore del lavoro – a essere determinato dal valore delle merci.
Nell’opera citata, egli critica l’idea che un simile approccio possa essere “rivoluzionario” e portare all’eguaglianza, come vorrebbe Proudhon: “Così il valore relativo, misurato in base al tempo del lavoro, è fatalmente la formula della schiavitù moderna dell’operaio, invece di essere, come vorrebbe il signor Proudhon, la «teoria rivoluzionaria» dell’emancipazione del proletario”.
L’idea del tempo di lavoro come misura del valore presuppone anche un appiattimento del lavoro stesso e delle sue peculiarità, così che l’ora di lavoro dell’uno valga tanto quanto quella dell’altro, mentre è evidente che il valore dell’ora lavorativa varia a seconda della tipologia di lavoro.
Il lavoro stesso è regolato, infatti, dalla legge della domanda e dell’offerta ed essa incide sul valore orario dei diversi tipi di lavoro: “Dato che la sola quantità di lavoro serve di misura al valore indipendentemente dalla qualità, essa suppone a sua volta che il lavoro semplice sia divenuto il perno dell’industria. Suppone che i lavori si siano eguagliati a causa della subordinazione dell’uomo alla macchina o della divisione estrema del lavoro; che gli uomini scompaiano davanti al lavoro; che il bilanciere della pendola sia divenuto la misura esatta dell’attività relativa di due operai, come lo è della velocità di due locomotive. [ … ] Il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più l’incarnazione del tempo. Non vi è più questione di qualità. La quantità sola decide di tutto: ora contro ora, giornata contro giornata; ma questo livellamento del lavoro non è l’opera dell’eterna giustizia del signor Proudhon; è semplicemente la realtà dell’industria moderna”.
Per Marx la riduzione del lavoro ad atti semplici ed elementari, dovuti alla meccanizzazione e alla divisione del lavoro, rende gli operai interscambiabili fra loro, creando una realtà che porta all’inevitabile sfruttamento del lavoratore: “… se vi è una differenza di qualità nel lavoro degli operai, si tratta tutt’al più di una quantità infima la quale è ben lungi dall’essere una specialità distintiva”.
E se un operaio vale l’altro, l’operaio dovrà abbassare il capo e sottostare alle angherie del padrone, comprese le eventuali diminuzioni di salario; e in un mondo dove il salario sia stabilito arbitrariamente, senza nessuna legge a dare indicazioni in merito, esso si stabilizzerà sul minimo indispensabile per la sopravvivenza del lavoratore stesso.
Per questo non è il lavoro a stabilire il prezzo delle merci, ma il contrario, anche perché il lavoro stesso è una merce: “ Il lavoro, in quanto si vende e si acquista, è una merce come un’altra, e di conseguenza un valore di scambio. Ma il valore del lavoro, o il lavoro in quanto merce, produce tanto poco quanto il valore del grano, o il grano in quanto merce, serve da nutrimento. Il lavoro «vale» più o meno, a seconda che le derrate alimentari siano più o meno care, a seconda che l’offerta e la domanda di mano d’opera esistano ad un grado più o meno elevato, ecc. Il lavoro non è affatto una «cosa vaga»; è sempre un lavoro determinato; e non è mai il lavoro in generale, che si vende e si acquista. Non è solo il lavoro che si definisce qualitativamente per mezzo dell’oggetto, ma è anche l’oggetto che viene determinato dalla quantità specifica del lavoro. Il lavoro, in quanto si vende e si acquista, è merce”.
Un altro tema classico della filosofia marxista è la lotta di classe, che Marx individuava come il vero motore delle dinamiche sociali ed economiche, ritenendo in particolare inevitabile – in un mondo in cui esista la proprietà – la lotta di classe tra i capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e i proletari che producono vendendo il loro lavoro; un sistema ingiusto che si basa, di fatto, sullo sfruttamento e sulla schiavitù e che sacrifica le vite degli operai in nome dell’accumulo di capitale. E non si può pensare che l’aumento della produzione porti ricchezza a tutti: “Nella società inglese, la giornata di lavoro ha dunque acquistato in 70 anni una eccedenza del 2700 per cento di produttività: vale a dire, nel 1840, essa ha prodotto 27 volte quello che aveva prodotto nel 1770. Secondo il signor Proudhon, bisognerebbe porsi la domanda seguente: perché l’operaio inglese del 1840 non era ventisette volte più ricco di quello del 1770? Con una simile domanda, si suppone naturalmente che gli inglesi avessero potuto produrre tali ricchezze senza che fossero esistite le condizioni storiche nelle quali appunto sono state prodotte: accumulazione privata dei capitali, divisione moderna del lavoro, officine meccanizzate, concorrenza anarchica, sistema salariale, e insomma tutto ciò che si basa sull’antagonismo delle classi. [ … ] Dunque è stato necessario, per ottenere questo sviluppo delle forze produttive e questa eccedenza di lavoro, che ci fossero delle classi che profittavano e delle classi che si immiserivano”.
E a quegli economisti borghesi che mostrano come la “ricchezza pubblica” – intesa come somma delle ricchezze private – sia aumentata, Marx fa notare che tale ricchezza è sempre nelle mani di pochi e come il proletariato non goda di questo aumento: “Quanto alle classi operaie, è una questione ancora assai contestata il sapere se la loro condizione sia migliorata in seguito all’accrescimento della ricchezza cosiddetta pubblica. Se gli economisti citano, a conforto delle loro tesi ottimistiche, l’esempio degli operai inglesi impiegati nell’industria cotoniera, essi considerano la situazione di questi lavoratori solo nei rari momenti di prosperità commerciale. Questi momenti di prosperità stanno alle epoche di crisi e di ristagno nella «giusta proporzionalità» di 3 a 10. Ma potrebbe anche darsi che, parlando di miglioramenti, gli economisti abbiano voluto parlare di quei milioni di operai che hanno dovuto morire nelle Indie Orientali, per procurare al milione e mezzo di operai, occupati in Inghilterra nella medesima industria, tre anni di prosperità su dieci. [ … ] E poiché il salario, a causa della concorrenza, oscilla al disopra o al disotto del prezzo dei viveri necessari al sostentamento dell’operaio, questi può partecipare in piccola misura allo sviluppo della ricchezza collettiva, ma può anche perire di miseria”.
Considerazioni, queste, che anticipano alcuni degli argomenti dei moderni economisti della decrescita e lo stesso può dirsi anche delle considerazioni di Marx sui beni di lusso che, sempre secondo alcuni economisti, dimostrerebbero il benessere della società.
Secondo costoro, infatti, la produzione dei beni di lusso, beni inutili o superflui, sarebbe possibile solo in una società che abbia soddisfatto i bisogni basilari della sopravvivenza; ma ancora una volta la realtà smentisce la teoria: “Perciò dire oggi che, essendo soddisfatti tutti i bisogni dei lavoratori, è divenuto possibile agli uomini dedicarsi alla creazione di prodotti di un ordine superiore, a industrie più complesse, significherebbe fare astrazione dall’antagonismo delle classi, e capovolgere tutto lo sviluppo della storia.
Sarebbe come dire che, poiché al tempo degli imperatori romani nelle piscine artificiali venivano allevate le murene, c’era di che nutrire abbondantemente tutta la popolazione romana; mentre, al contrario, il popolo romano mancava del necessario per comprare il pane, e gli aristocratici romani invece avevano tanti schiavi da darne anche in pasto alle murene”.
È una denuncia dell’ingiusta distribuzione delle ricchezze delle società basate sulla proprietà privata.
Insistendo sullo sfruttamento e sulla schiavitù, Marx denuncia lo “spostamento” della schiavitù praticato dal capitalismo moderno, spostamento che in pratica allontana, per così dire, le brutture dello sfruttamento dagli occhi del consumatore: “Così la schiavitù, essendo una categoria economica, è sempre stata nelle istituzioni dei popoli. I popoli moderni non hanno saputo fare altro che mascherare la schiavitù nel loro proprio paese e l’hanno imposta senza maschera al nuovo mondo”.
Marx, in ultima analisi, fa valere contro Proudhon l’idea che il processo storico ha una propria dinamica, determinata dal progresso tecnologico; e la dinamica dello sviluppo storico si realizza attraverso la lotta di classe.
Per questo il moralismo non serve, le contraddizioni sociali non si risolvono eliminando una delle parti in lotta ma solo spingendo la lotta fini in fondo; pertanto, la questione non sta nel dividere, come voleva Proudhon, la proprietà tra i lavoratori ma nel sopprimerla del tutto attraverso la rivoluzione vittoriosa della classe operaia.
"In una società futura, in cui l'antagonismo di classe fosse cessato, in cui non esistessero più classi, l'uso non sarebbe più determinato dal minimo di tempo di produzione ma il tempo di produzione sociale che si destinerebbe ai diversi oggetti sarebbe determinato dal loro grado di utilità sociale".
In sintesi, Per Marx ogni nuovo ordine non è in contraddizione con il precedente, ma ne è il frutto, perché le contraddizioni insite nei conflitti sociali di un determinato ordine costituiscono le basi necessarie al nuovo ordine sociale: il capitalismo borghese è frutto del feudalesimo; il socialismo sarà frutto del capitalismo perché quest'ultimo ne avrà preparato il terreno mediante il conflitto (la contraddizione) tra borghesia e proletariato.
Nulla è "contrario" ma tutto nella storia è perfettamente correlato e continuativo ed il cambiamento verso il Socialismo non sarà una questione di libera scelta bensì un'ineludibile necessità.
Proudhon, invece, affermava che il cambiamento non fosse conseguenza di concause esistenti nel presente regime economico e sociale ma potesse sopravvenire solo deliberatamente, in seguito ad una scelta concorde che avrebbe posto l'equilibrio fra le part confutando, in tal modo, la filosofia dialettica marxista in favore di un obiettivo teso a raggiungere un'equilibrio delle forze contrastanti in ambito sociale, mediante il "mutuo appoggio" delle componenti sociali che avrebbero dovuto bilanciarsi mediante reciproci diritti-doveri.
Vale la pena ricordare che Proudhon non era favorevole all'idea rivoluzionaria e anche durante i moti del 1848 si oppose alle rivolte violente, preferendo giungere ad una conciliazione delle forze sociali.
Egli non riconosceva un appartenenza di classe e perciò nemmeno una "coscienza di classe" necessaria alla spinta rivoluzionaria ed il suo progetto sociale si basava sull'idea federalista, in cui ogni cittadino doveva contribuire con la propria produzione di beni senza essere soggetto a nessuno; come per qualunque catena produttiva sarebbero necessarie molte specializzazioni, così, mediante la divisione del lavoro, ogni industria avrebbe dovuto reggersi attraverso la paritaria e collettivistica attività di ogni suo lavoratore, legando ogni individuo agli altri come un'indissolubile catena. Tutto ciò avrebbe dovuto essere costituito da libere associazioni impegnate ad assicurarsi reciprocamente il credito e sui liberi accordi.
L'ideologia di Proudhon non escludeva la proprietà privata nel limite in cui questa fosse stata effettivamente fruibile dal suo proprietario e non un surplus di ricchezza, che serve sempre al fine di prevaricare sugli altri; a livello nazionale si sarebbero organizzate le città come federazioni.
Il più importante punto di divergenza dal marxismo rimaneva però il rifiuto di Proudhon di ogni forma di Stato inteso come elemento autoritario che avrebbe leso l'autodeterminazione dei cittadini e dei gruppi; Marx invece ribadiva la necessità di instaurare un'entità statale che avrebbe dovuto servire nella fase di transizione socialista dal sistema capitalistico al comunismo.
Proudhon (poi anche Bakunin) riteneva che nel periodo post-rivoluzionario sarebbe stato un abuso l'instaurazione di qualsiasi entità statale; il popolo non avrebbe dovuto essere condizionato da nessun'élite né essere indirizzato in alcun modo.
Proprio in questo consiste il velleitarismo proudhoniano, nel pensare cioè che masse inesperte, guidate da una coscienza sociale ancora rozza, potessero autodeterminarsi senza l'ausilio ideologico e pratico di avanguardie destinate a guidarle.
Da qui la polemica con Marx e l’attacco che questi gli scagliò contro: Proudhon non sarebbe stato favorevole ad un periodo di transizione statalista perché, in effetti, non era favorevole all'espropriazione della borghesia ritenendo che delle "riforme" tese a rendere più equa la distribuzione della ricchezza fossero sufficienti per giungere al socialismo.
Proudhon contestava l'uso della violenza rivoluzionaria che Marx riteneva inevitabile giudicandolo in contraddizione con il fine che avrebbe voluto conseguire; egli in effetti propose, nel 1853, le sue tesi su come “soddisfare le giuste esigenze del proletariato senza ledere i diritti acquisiti della borghesia” ed in seguito il “corporativismo” di Proudhon servì come impalcatura politica al modello di corporativismo fascista.
Come si vede, non si tratta qui di rivivere il durissimo scontro che nel primo dopoguerra contrappose bolscevichi e socialdemocratici bensì di vivere il tentativo minare le fondamenta stesse del marxismo inteso come “socialismo scientifico”.
Per cui, al giorno d’oggi, non è esagerato parlare – viste e considerate le esperienze di movimentismo in corso d’opera – di “regressione” relativamente ai tentativi di rifondare il comunismo non sulle sue proprie basi marxiste ma sui parametri del socialismo (piccolo-borghese) premarxista ed antimarxista.
Salerno, 22 marzo 2018