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1977 – 2017: DOPO QUARANTA ANNI, MEGLIO DI QUARANTA ANNI FA

Nella seconda metà degli anni settanta si fanno sentire i primi morsi della crisi del ciclo di accumulazione del capitale (fine del boom post-seconda guerra mondiale) apertasi “ufficialmente” nell'agosto del 1971 con la denuncia degli accordi di Bretton Woods (1944) da parte del presidente statunitense Richard Nixon. Il 1977 è stato spesso paragonato al 1968 quale anno di forti contestazioni giovanili ma, mentre il 1968 evidenziava il risveglio della classe operaia italiana ed apriva un periodo pre-rivoluzionario in cui i lavoratori italiani avrebbero potuto prendere il potere, il 1977 marca la netta separazione tra una fascia avanzata di giovani e di lavoratori dalle masse popolari, preparando praticamente un nuovo periodo di sconfitte della classe operaia. Alla fine degli anni ’60 in Italia inizia un periodo senza precedenti, per quasi dieci anni si assiste ad una mobilitazione della classe operaia e dei giovani che portò molti a credere davvero che la presa del potere fosse imminente. La prospettiva rivoluzionaria infatti è reale, la classe operaia avrebbe potuto prendere il potere se non fosse stata maciullata nella contraddizione tra le posizioni riformiste assunte ormai dal gruppo dirigente del PCI e l’incapacità della sinistra extra-parlamentare di organizzarsi alla sua sinistra in maniera strutturata e forte teoricamente e praticamente. Questa contraddizione diventa lampante proprio nel 1977: dal 1968 al 1977 i sindacati crescono in maniera esponenziale, la partecipazione agli scioperi raggiunge livelli altissimi. Il PCI raggiunge un numero di iscritti impressionante: oltre 1.300.000 giovani e lavoratori chiedono per la prima volta la tessera del partito e la Fgci vede i suoi iscritti salire dai 70.000 ai 130.000 tra il 1970 e il 1975. Di pari passo, però, in quegli anni cresce fortemente anche la sinistra extraparlamentare; la Fgci perde molti militanti che rigettano la politica di compromesso dei vertici comunisti ed invocano una politica rivoluzionaria, aderendo ai tanti gruppi presenti sulla scena. In quegli stessi anni si assiste ad un duplice processo politico: da una parte si attiva una forte spinta di massa verso i sindacati e il PCI che coinvolge milioni di persone, dall’altra però gli elementi avanzati del proletariato si radicalizzano alla sinistra del PCI. L’orientamento delle masse verso il PCI non si riflette solo nell’accresciuta militanza ma particolarmente a livello elettorale, dove milioni di giovani e di lavoratori votano comunista per la prima volta; nelle amministrative del 1975 e poi nelle politiche del 1976 il PCI raggiunge il suo massimo storico con oltre il 34% dei consensi elettorali. Se al risultato del PCI si aggiungono il voto per il Partito Socialista (che si era spostato a sinistra in quel periodo) e quello per Democrazia Proletaria, il voto a sinistra supera il 48%. Il voto del 1976 suscita grandi entusiasmi e grandi speranze tra le masse operaie e giovanili in quanto viene visto come l’inizio di un cambiamento serio nel paese; c’è una fiducia diffusa che in un futuro imminente si sarebbe imposta una politica in favore delle masse popolari e dei lavoratori. In realtà tale entusiasmo si trasforma ben presto in una cocente delusione. Il successo elettorale nasconde il vero processo in atto: a seguito dell’impressionante colpo di Stato in Cile del 1973, il gruppo dirigente del PCI ha abbandonato ogni prospettiva di lotta rivoluzionaria per il potere e nel XIV congresso (marzo 1975) viene affermato che bisogna “evitare una spaccatura verticale del popolo e del paese in due fronti nettamente contrapposti e nemici”. È tracciata la strada che porta al “Compromesso Storico” e cioè ad un patto governativo tra PCI e DC (Democrazia Cristiana) per scongiurare la prospettiva di un golpe militare in Italia. È questa l’idea che sta alla base dei fatti accaduti tra il 1976 e il 1979. Lungi però dall’essere forza progressista, la Democrazia Cristiana semplicemente sfrutta questa politica dei vertici del PCI per far passare una politica reazionaria come si vedrà chiaramente nell’autunno del 1976 allorquando, dopo il più grande successo elettorale del PCI nel giugno di quello stesso anno, Andreotti riceve l’incarico di formare il nuovo governo e si presenta in Parlamento con un governo minoritario per chiedere la “non sfiducia” ai partiti “costituzionali” e per la prima volta in trent’anni i parlamentari del Pci si astengono permettendo così ad Andreotti di formare il suo governo minoritario. Il governo Andreotti passa dalle parole ai fatti e annuncia il suo programma di austerità: aumento del 25% del prezzo della benzina, del 20% del gas, del 15% dei fertilizzanti; blocco per due anni della scala mobile; abolizione di sette festività; aumenti del prezzo dell’energia elettrica e delle tariffe telefoniche e postali. Luciano Lama, segretario della CGIL, si dichiara in “totale accordo” con Andreotti ma la base operaia però la pensa diversamente; la risposta è dura ed immediata da parte degli operai con scioperi in tutta Italia che portano allo sciopero generale nell’ottobre del 1976. La reazione spontanea dei lavoratori rischia di far saltare tutti i progetti di collaborazione con la Democrazia Cristiana concordati dai vertici del PCI, il cui obiettivo in quei giorni è uno solo: fermare l’onda di protesta che sta dilagando in tutto il Paese, avendone le forze e l’autorità per farlo. I dirigenti del PCI e della CGIL godono ancora di una grande autorità tra le masse popolari e tra i lavoratori e questo spiega la loro capacità di far rientrare quell’ondata di rabbia e di lotta; molti lavoratori non vogliono schierarsi subito contro i dirigenti di un Partito che ha incassato uno strepitoso successo elettorale solo pochi mesi prima. La linea dei “sacrifici” convince ancora molti lavoratori che sono quindi disposti a concedere un po’ di tempo ai loro dirigenti. In questo quadro, viene presentata la riforma Malfatti dell'università, che prevede, tra le altre cose, un aumento delle spese di iscrizione e un irrigidimento dei piani di studi con meno sessioni d'esame, ed obblighi di frequenza. Nelle università scoppiano occupazioni e proteste che toccano anche la sinistra parlamentare: per esempio, Luciano Lama, allora segretario generale della CGIL, viene cacciato da studenti e militanti politici – per lo più dell'Autonomia Operaia – dall'università di Roma, dove si era recato per tenere un comizio al fine di convincere gli studenti in lotta. Si arriva così al marzo del 1977, quando, a Bologna, i carabinieri sparano alla schiena e uccidono Francesco Lorusso, militante di Lotta Continua, durante una manifestazione contro le violenze messe in atto da Comunione e Liberazione nei confronti di studenti di sinistra. Immediatamente, scoppiano scontri durissimi con le forze dell'ordine che si estendono ad altre città, in particolare Roma e a Bologna dove, per soffocare la protesta, intervengono i mezzi blindati. Una considerazione immediata da fare è che nel movimento del '77, benché non fossero assenti frange di proletariato, soprattutto appartenente alle giovani generazioni, la classe operaia è ancora massicciamente sotto l'influenza del PCI e della CGIL, che scavano un solco profondo proprio tra il proletariato e i “settantasettini”. Questi ultimi, a loro volta, ben poco fanno per colmare questa distanza spezzare dando, anzi, l'impressione di alimentare fortemente la contrapposizione tra i cosiddetti “garantiti” cioè gli operai col posto fisso e i “non garantiti” cioè il proletariato giovanile e la piccola borghesia studentesca. Non ci fu la necessaria e strategica “saldatura” tra gli studenti e gli operai ed il movimento piombò in confusione politica; tra delusioni e sbandamenti ebbe buon gioco a inserirsi il terrorismo “rosso” (infiltrato dai servizi segreti di ogni dove) che, bruciando tragicamente tanti compagni in buona fede, ebbe la sua parte nello scrivere la parola fine ai fermenti politico-sociali di quegli anni e a preparare i cupi “anni di piombo” a venire... Dopo quaranta anni la situazione è ben diversa e peggiore: la ristrutturazione capitalistica ha travolto e travalicato gli argini di democrazia politica ed economica; il Sindacato è neutralizzato e sulla difensiva; la classe operaia è delusa e demotivata perché senza più riferimento di un Sindacato e di un Partito di classe; i movimenti studenteschi sono isolati dal contesto sociale e rinchiusi nel “recinto” incapaci di raccordarsi con le istanze sociali; lo Stato sociale ed il welfare pubblico sono sacche di resistenza circondate e strette d’assedio dal capitale finanziario privato. Non esiste più il PCI di Gramsci, di Longo e di Berlinguer, capace di organizzare e guidare le masse popolari alla conquista dei propri diritti, alla vigilanza democratica, all’organizzazione delle lotte, al rispetto ed alla difesa della Costituzione. I Partiti del cosiddetto “arco costituzionale” sono tutti complici o succubi del nuovo ordine mondiale, zerbini dell’Europa dei capitali e compiacenti verso le mire imperialiste degli USA. Un’altra classe sociale si è formata prepotentemente negli anni successivi alla crisi in quest’ultimo decennio: il precariato. Gli italiani hanno perso la voglia di lottare per i propri diritti e per la democrazia, l’astensionismo elettorale supera soglia 40% e si configura come primo “Partito” nel Paese. Demagogia, opportunismo e populismo determinano, condizionano ed orientano lo scenario politico nazionale ed i poteri forti – vecchi e nuovi – sono in tutti i gangli della vita sociale, politica ed economica italiana. L’Italia e tutti i governi indistintamente succedutisi negli ultimi 25 anni sono stati e sono proni alle direttive europee in materia economica suggerite a Berlino e scritte a Bruxelles ed alle “chiamate alle armi” provenienti da oltreoceano. Questo scenario è apocalittico, non ci sono più forze politiche e sociali strutturate in maniera tale da poter organizzare la resistenza e la riscossa da parte delle masse popolari oppresse e sfruttate senza più remore… Però un barlume di speranza sembra concretizzarsi con la discesa in campo di tanti giovani dei collettivi e dei centri sociali che, non a caso dal Sud, hanno dato inizio ad un percorso che è tutto un crescendo di parole d’ordine e di concreto impegno politico nei territori. In pochi mesi tutta l’Italia si è contaminata di nuovo entusiasmo e spiccata voglia di partecipazione attiva al cambiamento e questo movimento “Je so’ pazzo” ne è il motore principale; questi giovani vogliono cambiare lo stato di cose presenti in prima persona rifuggendo dal ricorrere a Partiti costituiti o che possano prenderne il controllo. Come quaranta anni fa i giovani tornano in piazza, forzano i tempi, sono ribelli e non vogliono fermarsi… Bisogna però riflettere sugli errori del movimento del 1977 affinché da quegli errori si tragga l’equilibrio necessario per portare a termine una battaglia grandiosa e forse decisiva per iniziare a sfondare il recinto che racchiude speranze e futuro dei giovani italiani. Allora c’erano un grande PCI ed una grande CGIL che non compresero la portata rivoluzionaria del movimento giovanile, non accettarono la protesta e la lotta fuori dal controllo del Partito e del Sindacato, convinti come erano che il Paese non poteva andare incontro a turbolenze sociali perché “avremo fatto la fine del Cile” come si diceva in quel periodo. Nel PCI prevalse la linea della stabilità politica ed istituzionale con la quale condurre in Parlamento battaglie graduali, evitando di scoprire il fianco alla sempre possibile (e temuta) repressione da parte delle forze dell’ordine al servizio della borghesia; i giovani, dal canto loro, non cercarono appoggi e sponda nella classe operaia e più in generale nel mondo del lavoro col risultato di venirne respinti ed osteggiati. Quei giovani corsero da soli e da soli persero… Quella sconfitta ci deve insegnare soprattutto a lottare tutti insieme, ad unire le forze ed organizzare le battaglie con il mondo del lavoro, del precariato, della sofferenza civile e sociale. Questo movimento non deve, però, commettere il grave errore di ritenersi autosufficiente e non deve cadere nella trappola dello spontaneismo; l’unità di azione con altri Partiti comunisti e con altre organizzazioni della sinistra di alternativa deve sempre più essere ricercata e coltivata per fondere in un tutt’uno teoria e prassi rivoluzionarie, in un mix di esperienza di lotte organizzate e di entusiastica partecipazione. Questa è un’occasione forse irripetibile, da non perdere, per l’emancipazione politica e sociale delle masse popolari; bisogna riuscire a fare argine alla deriva autoritaria con venature di regime, a bloccare nascenti rigurgiti fascisti e razzisti ormai non più sotto traccia, a forgiare come l’acciaio l’alleanza tra mondo giovanile e mondo del lavoro, a dare un futuro di giustizia sociale e di libertà alle generazioni a venire.  Il momento è ora… Compagni alla lotta!!

Salerno, 21 dicembre 2017

 

 

    

 




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